Oggi viviamo nella società del controllo. Deleuze l’aveva previsto vent’anni fa.

Diletta Huyskes
6 min readMar 12, 2019

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Pochi anni prima della sua scomparsa, dopo aver già pubblicato tutte le sue opere principali, Gilles Deleuze scrisse un saggio intitolato Poscritto sulle società di controllo, pubblicato prima ne L’autre journal, poi in Pourparler, nel 1990. L’intenzione era quella di commentare e aggiungere qualcosa al lavoro dei due teorici del potere Michael Foucault e William S. Burroughs, padre spirituale della Beat Generation, ma anche alle opere che lui stesso scrisse in collaborazione con Felix Guattari. Lo scopo era quello di descrivere e prevedere il ruolo del potere e del controllo nel tardo capitalismo.

Nel suo saggio — scritto quindici anni dopo Sorvegliare e punire, in cui Foucault ricerca le origini delle società disciplinari come evoluzione delle società della sovranità — Deleuze individua un terzo passaggio: le società del controllo. Questi tre tipi di società, secondo i due filosofi, corrispondono alle diverse forme storiche attraverso cui il potere si è esercitato: Sovranità, Disciplina e Controllo.

In una breve introduzione storica e teorica del suo testo, Deleuze descrive il funzionamento della società disciplinare, indicandone la famiglia, la fabbrica, la scuola, la caserma e il carcere (l’ambiente di reclusione per eccellenza), come i paradigmi fondamentali, per poi dimostrare come ormai queste istituzioni siano già in crisi. Per questa ragione, secondo Deleuze, si sono generate le società del controllo, caratterizzate, a differenza delle prime, da continue variazioni. Se i luoghi emblematici della Disciplina, infatti, si alternavano con regolarità nella vita dell’uomo (nasceva in una famiglia, andava a scuola, si spostava in caserma, poi in fabbrica ed eventualmente in carcere) quelli del Controllo sono tutti sovrapposti e mai fini a se stessi. Uno degli esempi più efficaci è quello della fabbrica: essa era un corpo che teneva, almeno a livello teorico, le sue forze interne in equilibrio, il più alto possibile per la produzione, il più basso possibile per i salari. Trasformandosi in impresa, nelle società del controllo, diventa uno spazio di sfide, concorsi, colloqui estremamente comici, che Deleuze paragona ai giochi televisivi. Alla massa della fabbrica si sostituisce l’individualizzazione e la rivalità dell’impresa.

Non c’è bisogno della fantascienza per concepire un meccanismo di controllo che dia in ogni momento la posizione di un elemento in ambiente aperto, animale in una riserva, uomo in una impresa

Ma la differenza principale sta nel modo diverso in cui l’uomo è organizzato all’interno di queste società. Nelle società disciplinari era rappresentato in due modi: la firma, attraverso il quale era riconosciuto in quanto individuo, e il numero di matricola, che indicava la sua posizione nella massa della fabbrica. Nelle società del controllo, al contrario, l’essenziale non è più né una firma né un numero, ma una cifra: non ci si trova più di fronte alla coppia massa/individuo, ci dice Deleuze: gli individui sono diventati dei dividuali, dei campioni statistici di dati per i mercati, risultato di un processo di individualizzazione.

Le società del controllo sono società rizomatiche. Il rizoma è un concetto cardinale della filosofia deleuziana che indica, attraverso un nome ripreso dall’ambito botanico, qualcosa di reticolare, anti-struttura. Attribuendogli una chiara valenza biopolitica, Deleuze e Guattari lo utilizzano per indicare la molteplicità, la creazione continua e la non-organizzazione, adatte secondo loro a descrivere la condizione postmoderna. In queste società, il tempo libero non esiste più: tutto si mescola, la vita dell’uomo non è più strutturata intorno a luoghi del potere, anzi, la sua vita è costantemente monitorata dal potere, perché lo segue fino a casa. Nel Panopticon di Foucault esisteva un punto di sorveglianza centrale, mentre ora la sorveglianza invade qualsiasi punto della realtà, paragonabile più che altro a un Grande Fratello che raccoglie informazioni e le trasforma in algoritmi: se una volta il luogo della sorveglianza era ben visibile e generava timore, oggi veniamo incoraggiati a non preoccuparci di essere controllati. In generale, qualsiasi cosa facciamo è tracciata e può essere in qualche modo utilizzata con o senza il nostro consenso: siamo persuasi ad accettare questa situazione come qualcosa di normale e naturale. Fondamentale per le società del controllo è mantenere un’illusione di libertà nell’uomo, che lo spinga ad agire normalmente: ciò che è importante sottolineare è come un organo del potere possa esercitare controllo su di noi lasciandoci fare esattamente ciò che vogliamo.

Nel suo ultimo libro, The age of surveillance capitalism, Shoshana Zuboff, scrittrice e accademica statunitense, parte da un ragionamento analogo a quello formulato da Deleuze. Quello della nostra epoca è un nuovo tipo di capitalismo, che la Zuboff definisce “di sorveglianza” e che lavora fornendo servizi gratuiti a miliardi di persone, in cambio della possibilità di monitorare dettagliatamente il comportamento degli utenti in rete spesso senza il loro esplicito consenso. Molte compagnie come Google e Facebook crescono continuamente grazie alla raccolta di queste informazioni, la maggior parte delle quali viene passata a processi più avanzati di machine intelligence, diventando predizioni di mercato. È stata aggiunta quindi una nuova fase alla catena del capitalismo, e siamo proprio noi a rappresentarla. Secondo Zuboff, questa tecnologia digitale sta dividendo i cittadini di qualsiasi società in due: i sorveglianti e i sorvegliati.

Shoshana Zuboff

Secondo Deleuze è compito del filosofo quello di descrivere e mettere in guardia dai meccanismi socio-tecnici del controllo, compito che prima apparteneva ai sindacati. Il filosofo si rivolge alle generazioni future, indicandole come responsabili di trovare nuove armi con cui combattere.

Il capitalismo di sorveglianza che governa questo tipo di società ci ha trasformati in codici, entità disumanizzate, e agisce come controllo sociale attraverso il marketing e la pubblicità. Ormai, i brand e il marketing riescono a fare in modo più convincente ciò che prima faceva la filosofia: creare concetti. Anche la politica e il candidato proposto sono brand: gli slogan che utilizzano servono per cercare di convincere le persone che qualcosa di nuovo, di diverso sta per accadere. Basta pensare alla campagna elettorale di Barack Obama nel 2008, Change: non così diversa dalle prime rivoluzionarie pubblicità della Pepsi, in cui si proponeva come “innovazione per un’intera generazione”.

Il marketing controlla la realtà facendo credere che le opzioni possibili siano limitate da ciò che il mercato offre, dato che le proposte sono generalmente basate su nostri interessi precedentemente monitorati. Ovviamente è impossibile azzerare un processo di questo tipo, anche perché la sorveglianza che esso implica spesso ci porta privilegi a cui non molti sarebbero disposti a rinunciare. La soluzione è quella di adattare il cambiamento della nostra società alle nuove istituzioni che la controllano, comprendere come, ci chiede Deleuze, “resistere alle gioie del marketing”, e rendere il controllo più consapevole e creativo.

Aveva fatto bene Deleuze, da filosofo, ad occuparsene: se non è possibile pensare al capitalismo di sorveglianza senza la tecnologia, è possibile invece pensare la tecnologia senza capitalismo di sorveglianza. Dipende dai meccanismi sociali, economici e quindi politici che se ne occupano di determinare le logiche e i limiti dell’azione del controllo. La soluzione filosofica che darebbe Deleuze sarebbe quella di rendere il desiderio più creativo, capace di scappare dalla conoscenza stabilita e dal potere: fai la differenza, celebrala, rifiutati di accettare le distinzioni binarie espresse dal mercato e rendi la tua una scelta politica. La resistenza nasce dalla creazione del nuovo.

Da quando è nato, a parte modelli come l’antitrust, i controlli imposti dalle leggi sulla privacy e dai sindacati, il capitalismo di controllo ha avuto modo di crescere senza impedimenti: servono nuovi paradigmi nati dalla comprensione sia degli imperativi economici della sorveglianza sia dei suoi meccanismi fondativi.

Intellettuali come Zuboff, che dedicano da anni il loro lavoro a questo scopo, ci stanno sicuramente aiutando a comprendere e a conoscere meglio questi fenomeni, andando oltre le evidenze, in modo che la conoscenza non rimanga un privilegio dei sorveglianti ma anche di chi si vuole — e si può — ribellare. Altre iniziative importanti stanno crescendo nel campo della digital security, se non altro per mettere in guardia gli utenti dai rischi che corrono e insegnando a proteggere i dati che diffondono.

La speranza è che, parlando di questi temi e incoraggiando i lettori, le nostre politiche possano adattarsi: la rete crea le condizioni di possibilità per l’emergere di nuove forme di controllo che moltiplicano la sorveglianza, ma non ne sono la condizione d’esistenza.

Originally published at thevision.com on March 12, 2019.

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Diletta Huyskes

Empirista radicale e idealista pragmatica, studio il rapporto tra tecnologia e società, le discriminazioni algoritmiche, il femminismo tecnologico.