Il lato oscuro della tecnologia armata in Italia
[Pubblicato su VISIONARI, aprile 2019]
Perché dovrebbero interessarci il rapporto tra il nostro Paese e le armi tecnologiche? I droni militari stanno cambiando lo scenario delle guerre in tutto il mondo, ma quello che probabilmente non sappiamo è che il nostro Paese è in prima linea nel dibattito e ci ha fin’ora investito circa 1.400 milioni di euro.
A Sigonella, in Sicilia, si trova una delle basi di droni più importanti al mondo. In un report prodotto dall’Open Society Foundations, si legge che si tratta di una base americana che dal 2008 viene utilizzata per lanciare operazioni nel Mediterraneo e soprattutto in Libia, dove negli ultimi sette anni sono stati più di 550 gli attacchi statunitensi effettuati da droni armati in partenza dalla base militare siciliana.
Nonostante i dati allarmanti, in Italia non esiste un vero e proprio dibattito parlamentare e pubblico al riguardo. Nel corso degli anni, molte Ong hanno rivolto pressioni e richieste per una maggiore trasparenza al governo italiano, ma l’unico documento pubblico rimane l’Accordo Tecnico tra i due paesi del 2006, al quale non è seguita nessuna dichiarazione o sviluppo relativo all’utilizzo di droni da parte del Parlamento Italiano.
Nel 2016, l’European Centre for Constitutional and Human Rights (ECCHR) ha richiesto per la prima volta l’accesso alle informazioni sul quadro giuridico che regola la presenza e l’uso dei droni che partono e giungono a Sigonella, e nel 2017 ha presentato una denuncia giudiziale al TAR di Roma per ottenere l’accesso ai documenti dopo che gli era stato rifiutato. Nel dicembre 2018, il TAR ha dichiarato la denuncia inammissibile per motivi procedurali. Nel marzo 2019, ECCHR ha presentato ricorso in Cassazione dinanzi al Consiglio di Stato, ma l’udienza non è ancora stata programmata.
Secondo il report dell’Ong Drone Wars, gli Stati Uniti e Israele sono i primi Paesi nell’utilizzo di dispositivi armati a pilotaggio remoto (Apr) per operare su campi di battaglia. Altri stati si stanno attrezzando per armare i propri droni, e tra questi c’è l’Italia. Il nostro esercito è già in possesso di droni, ma li utilizza solo a scopo di ricognizione e sorveglianza, come sottolinea il sito dell’Aeronautica Militare. Il nostro Paese possiede sei droni Reaper e sei droni Predator, che Antonio Mazzeo, giornalista e componente del comitato No Muos, descrive così:
«Le sofisticatissime tecnologie a bordo non gli consentono di distinguere i ‘combattenti’ nemici dalla popolazione inerme con la conseguenza che è oggi uno dei sistemi di guerra più tenuti sotto controllo dalle organizzazioni internazionali umanitarie e dalle stesse Nazioni Unite, che hanno avviato una commissione d’inchiesta sul suo spregiudicato utilizzo in Africa e Medio Oriente».
Nel febbraio 2018, in piena campagna elettorale, la ministra uscente della Difesa Roberta Pinotti ha presentato al Parlamento un decreto ministeriale per richiedere l’acquisto, con un programma che durerà 15 anni, di 20 nuovi droni militari armabili P2HH per succedere ai precedenti modelli Predator e Reaper. Grazie ad un rapporto di Mil€x, l’Osservatorio sulle spese militari italiane, sappiamo che il costo dell’operazione è di 766 miliardi di euro. I modelli richiesti sono prodotti da Piaggio Aerospace, azienda con sede in Liguria controllata da un fondo d’investimento degli Emirati Arabi Uniti a rischio fallimento. L’operazione non rispondeva ad una particolare urgenza di sostituzione dei droni già in possesso dell’Aeronautica o ad esigenze strategiche di difesa nazionale, bensì a logiche che, si legge nel decreto firmato Pinotti, sono «legate principalmente al ritorno di immagine conseguente all’impiego dei mezzi in attività dal forte impatto mediatico sia in territorio nazionale che all’estero».
Nello stesso documento presentato dalla Difesa, si legge anche che i nuovi sistemi da acquistare consentono attività il monitoraggio e il supporto al contrasto dei fenomeni migratori. Una cosa è chiara: uno degli scopi principali esplicitati nel documento è quello dell’implementazione della sorveglianza.
Con l’instaurarsi del nuovo Parlamento a giugno, la competenza sul programma d’acquisto è passata alla nuova titolare della Difesa Elisabetta Trenta, che ne ha annunciato “la piena approvazione” durante un’interrogazione parlamentare avvenuta nel settembre 2018.
In seguito ad un’inchiesta giornalistica condotta da The Intercept e La Repubblica, le commissioni congiunte di Esteri e Difesa di Senato e Camera dei deputati hanno chiesto chiarimenti riguardo al ruolo dell’Italia nell’accordo. L’ultima dichiarazione a riguardo arrivava dall’Esecutivo precedente che aveva chiarito, riguardo all’impiego di droni statunitensi da Sigonella, che ne avrebbe di volta in volta autorizzato l’impiego a scopi esclusivamente difensivi. Nell’inchiesta si leggeva che dopo diversi anni di attività limitata, la guerra aerea statunitense in Libia aveva subito un’accelerazione nel 2016 con l’operazione Odyssey Lightning. Quell’estate, il neonato regime post-Gheddafi (il governo libico dell’Accordo nazionale) chieva l’aiuto americano per dislocare i caccia dell’ISIS da Sirte. Nel frattempo, il primo ministro libico Fayez al-Serraj dichiarava al Corriere della Sera di aver «chiesto solo attacchi aerei americani, che devono essere chirurgici e limitati nel tempo e nella portata geografica, sempre effettuati in coordinamento con noi». Secondo una dichiarazione dell’AFRICOM (Comando Africano degli Stati Uniti), tra agosto e dicembre 2016 gli Stati Uniti hanno effettuato 495 attacchi aerei di precisione a Sirte.
Ai deputati e senatori che avevano sollevato la questione, la ministra rispondeva di aver chiesto approfondimenti sulla questione ma che, ancora prima di ricevere i documenti, si dava sicura che «tutte le attività di Sigonella venissero eseguite nel rispetto della legge italiana e internazionale». Nel novembre 2018, due mesi dopo l’approvazione del piano, alcuni droni americani partiti dalla base militare italiana hanno causato la morte di 11 civili. In realtà, l’approvazione della spesa italiana per i droni include anche altri programmi. Un mese fa, infatti, è finalmente atterrato a Sigonella il primo drone del sistema Ags (Alliance Ground Surveillance) della NATO, operativo dal 2020 e a cui l’Italia prende parte con un contributo di 211 milioni. Il resto della spesa è stato investito nell’acquisto dei droni prodotti dalla Piaggio Aerospace e dalla americana General Atomics. Il Pentagono, infatti, ha autorizzato il ministro della Difesa italiano ad armare i propri velivoli a controllo remoto dal 2015, a patto che siano di produzione statunitense.
Secondo il rapporto di Mil€x, lo scopo dell’investimento in Apr destinato alle Forze Armate Italiane potrebbe essere non solo quello di sorvegliare, ma anche di attaccare: «documenti ufficiali della Difesa citano chiaramente uno stanziamento iniziale da 19,3 milioni di euro per “capacità di ingaggio di precisione sistema APR Predator B”» Questo significa che l’Italia ha intenzione di armare i propri droni.
Da uno studio di Archivio Disarmo emerge che rispetto alle vittime causate da attacchi con droni, un’assenza di dati certi sul numero delle vittime è diffusa: «ad esempio, il governo USA ha dichiarato che nel periodo 2009–2015 in 473 attacchi condotti in Afghanistan, Iraq e Siria, sono stati eliminati tra i 2.372 e i 2.581 terroristi». Ovviamente, come ha sottolineato una ricerca dell’Università di Standford, l’utilizzo di droni armati sta cambiando da anni il volto dei conflitti e pone questioni importanti riguardo al ruolo delle macchine nel processo decisionale. Se davvero l’Italia sta procedendo a questo passaggio, sarebbe meglio affrontare alcune questioni legate alla trasparenza. Notando la mancanza di diffusione delle decisioni prese dai precedenti governi, è opportuno far notare come la partecipazione della società in scelte come questa — sul loro carattere tecnologico e sulle spese militari in generale — sia necessaria per il futuro a cui andiamo incontro. Considerando che non si hanno notizie del ruolo italiano a Sigonella dal 2016, come scrive Mil€x nel suo rapporto il Parlamento dovrebbe urgentemente affrontare questo tema, poiché la detenzione di droni armati implicherebbe dal punto di vista tecnico e politico una flessibilità di impiego bellico infinitamente maggiore rispetto ai tradizionali cacciabombardieri pilotati, che comporterebbe una rivoluzione nella posizione militare dell’Italia. Rendere pubblico questo dibattito sia per l’aspetto militare che per quello tecnologico sarebbe un grande segno di cambiamento e svolta per la nostra democrazia.